La vicenda della Madonna di Caravaggio affascinò per molto tempo i credenti cristiani tanto da produrre un culto che si propagò in tutta Italia nel breve volgere di due secoli, spingendo schiere di fedeli a mettersi in cammino verso il luogo del prodigio. Ecco spiegata l’origine e la storia del quadro conservato nel Duomo di Santo Stefano.
Nel 1492, mentre le truppe viscontee e veneziane si davano battaglia ambendo al dominio del territorio della Gera d’Adda, lunedì 26 maggio, sul calar della sera, in un campo poco distante dal borgo di Caravaggio, accadde un fatto straordinario: una contadina di 32 anni, Giannetta Vacchi in Varoli, vide apparire una donna indicibilmente bella ed alta, vestita di un abito azzurro e con il capo coperto da un velo bianco. La signora aveva dei tratti ben noti alla giovane bergamasca che, senza esitazione, la salutò con un gioioso, quanto stupito, «Maria Vergine!». La dama confermò il riconoscimento e precisò il motivo della sua presenza: era riuscita, attraverso le sue amorevoli preghiere, a far desistere il Figlio dal piano di annientare la terra a causa dell’iniquità degli uomini; pertanto desiderava che l’umanità si ravvedesse e rispettasse alcuni precetti di natura penitenziale. Ambasciatrice di questo urgente messaggio avrebbe dovuto essere la veggente Giannetta, la quale, tuttavia, non mancò di manifestare la sua perplessità in merito alla gravosità della missione di cui era stata investita, evidenziando la seria e reale possibilità di non essere creduta. Le rassicurazioni non tardarono: miracoli grandiosi avrebbero testimoniato la bontà del suo annuncio.
Così potrebbe essere sintetizzato il tradizionale racconto dell’apparizione della Madonna di Caravaggio, una vicenda che affascinò la pietà cristiana tanto da produrre un culto che si propagò in tutta Italia nel breve volgere di due secoli e fin dalle sue origini spinse schiere di credenti a mettersi in cammino verso il luogo del prodigio. Un esempio della popolarità di cui era circondata tale devozione può essere fornito dalla tela in analisi. Il soggetto effigiato ritrae proprio il momento della comparsa della Vergine a Giannetta. Le due figure di proporzioni monumentali sono poste in primo piano, rigidamente inquadrato nelle rispettive posizioni di benedicente ed orante. La resa stilistica e pittorica è abbastanza stanca, monotona, veloce, sommaria: gli abiti, abbondanti e ricchi di pesanti pieghe e notevoli risvolti, producono movimenti in completo disaccordo con le membra che li indossano; i volti stereotipati, impassibili, inespressivi non lasciano trasparire lo stato emotivo dell’evento. L’unico dettaglio che pare unire i due personaggi e saldarli in un gruppo semanticamente coerente è quello delle mani: disposte in un elegante diagonale che dal gesto benedicente di Maria perviene alle mani giunte della giovane contadina, esse sembrano racchiudere il significato profondo dell’apparizione. Sullo sfondo compare una struttura architettonica sproporzionata rispetto alle figure in primo piano: una chiesa con due torri campanarie (una delle quali a pianta centrale) ed un portico con quattro colonne. L’edificio potrebbe essere identificato con il nuovo tempio, la cui costruzione fu promossa dal cardinale Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, e commissionata nel 1575 ad un quarantottenne Pellegrino Tibaldi. L’edificio progettato dall’architetto comasco presentava due importanti novità: un nartece ed una cupola. Nella struttura dipinta sulla tela, però, ne troviamo soltanto una, il vestibolo. La mancanza del secondo potrebbe costituire un elemento utile alla datazione dell’opera, priva di firma e d’anno d’esecuzione. La costruzione della cupola durò dal 1691 al 1695; pertanto il santuario rappresentato si colloca in un arco di tempo che va dal 1575 al 1691. Indagando in modo più approfondito l’immagine, notiamo la presenza di alcuni elementi (il timpano sormontato da tre torrette, i due campanili) che nel corso dell’edificazione del nuovo santuario o saranno abbattuti o verranno fortemente modificati. Le ipotesi di datazione si restringono, allora, al periodo iniziale dei lavori di ricostruzione, ai decenni precedenti il XVII secolo. Seguendo questa traccia, potremmo anche tentare di dare un nome a colui che realizzò il quadro. Valutata la mediocre qualità del dipinto, egli doveva essere un allievo legato alla tradizione pittorica del maestro e poco incline agli aggiornamenti. Doveva, inoltre, conoscere approfonditamente Caravaggio e la tradizione che circonda il suo santuario. Nel 1998, schedando la tela, Maria Adelaide Donzelli ed Ulisse Bocchi proposero un’attribuzione dell’opera al cremonese Uriele Gatti, figlio del più celebre Bernardino. Questo nome risulta essere convincente perché risponde in modo soddisfacente alle caratteristiche del possibile autore del quadro poco sopra delineato. Allievo nella bottega del padre, Uriele Gatti non esibì mai doti pittoriche paragonabili a quelle del genitore. Anzi, morto il Sojaro ed ereditata la bottega cremonese, fu costretto a cercare lavoro fuori dalla città di Cremona, nel cremasco e nel bergamasco. A Romano di Lombardia, paese della pianura bergamasca a breve distanza da Caravaggio, risedette ed operò intorno alla prima metà degli anni Ottanta e negli anni Novanta del Cinquecento. È lecito, dunque, congetturare che la Madonna di Caravaggio, esposta nell’abbaziale di Santo Stefano nella terza cappella della navata destra, a fianco del confessionale, sia frutto dell’attività di questo periodo romanese. Grazie ad una scrupolosa ricerca d’archivio condotta da Enrico Cirani, sappiamo infatti che la tela fu donata alla chiesa di Santo Stefano nel 1728, insieme ad altri arredi sacri, da Livia Teresa Fantini, moglie del patrizio casalese Scarenzi. Inoltre, dall’inventario stilato nel 1947, sappiamo che nel 1908 l’opera fu sottoposta ad un restauro incauto che probabilmente ne danneggiò la qualità pittorica.di Sebastiano Fortugno