Condividiamo nel nostro spazio virtuale il contributo al tempo Pasquale di Padre Francesco Serra, guardiano della comunità dei Frati del Santuario della Fontana. L’intervento, uscito sulle pagine del bollettino Aprile-Giugno del Santuario, sottolinea lo specifico della Chiesa: «Le opere di misericordia sono un compito che ci appartiene ma ciò che definisce la Chiesa è l’annuncio della Salvezza».
Ricordo un’intervista su una tv nazionale in occasione del terribile terremoto di Amatrice. La giornalista, rivolgendosi ad un sacerdote, disse che era cosa buona che la Chiesa fosse presente con attività a sostegno della popolazione. L’intervistato rispose: ‹‹Se la Chiesa non fa questo a cosa serve?››. Questa risposta mi ha sorpreso. L’intervista penso sia stata tagliata, e che abbiano scelto di tenerne solo una parte. E’ noto che alcuni vorrebbero che la presenza dei cristiani nel mondo fosse solo una forza “sussidiaria”, che intervenga là dove non giungono le istituzioni, lasciando nel silenzio l’insegnamento del Vangelo che non si riferisce direttamente ad una carità selezionata. Questa è l’occasione per chiederci perché la Chiesa esiste. Esiste perché anzitutto annunci il “Regno di Dio”, come ha fatto Gesù Cristo. Ce lo ricorda l’evangelista Marco: ‹‹Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto›› (Mc 1,38). Come dire: le opere di misericordia sono un compito che ci appartiene ma ciò che definisce la Chiesa è l’annuncio della Salvezza. Non possiamo certo dimenticare la nostra storia, cosa Dio ha fatto per il suo popolo. Non possiamo chiudere la storia della salvezza in un cassetto per parlare solo di opere, solo di cose condivisibili e che piacciono a tutti. Per non appiattirci in una vita scandita solo da eventi culturali o sportivi, da vacanze estive o invernali, dobbiamo ricordare il passato per vedere le tracce del passaggio di Dio; appunto la sua Pasqua. Potrebbe aiutarci a riflettere una breve citazione di un libro di sua Eminenza Padre Raniero Cantalamessa, che riporto di seguito. L’antico popolo semita, seminomade, celebrava «una sorta di preistorica cena pasquale. Un pasto in comune di tutti i membri della famiglia nel plenilunio del primo mese, prima della separazione del clan, era un riconoscimento dei vincoli che li univa: un segno di solidarietà, una “comunione” tra persone che si cibavano di una stessa sostanza. Era in secondo luogo, una “comunione” con la divinità o le divinità…Il gesto di solidarietà diviene così una sorta di tacito rinnovamento dell’alleanza con la divinità all’inizio di ogni anno. Un’alleanza, s’intende, ancora grossolana, che significa quasi solo richiesta di benefici materiali e protezione contro la mala sorte, il malocchio e tutte le altre paure…» [1]. I nostri progenitori nella fede dunque non facevano memoria di un evento storico fondamentale. Il tempo scorreva scandito dall’alternarsi delle stagioni. Un po come accade oggi per noi che ci siamo dimenticati di Dio, e che celebriamo feste e ricorrenze sociali senza memoria. Poi accadde qualcosa. Quello stesso popolo visse l’esilio in terra d’Egitto, visse la schiavitù, e a causa di quella schiavitù conobbe il Dio liberatore. La sera del primo novilunio di primavera, il giorno 14 del mese di Nisan, guidati da Jahvè, compirono il passaggio (pesach = Pasqua) dalla schiavitù alla libertà. Quell’antico evento trasforma lo scorrere del tempo da ciclico, chiuso in se stesso scandito dal ripetersi delle stagioni, in un tempo aperto al futuro; in un “Esodo” appunto, verso la Terra promessa. Il viaggio compiuto dagli Ebrei è per noi oggi il paradigma del viaggio della vita di fede. Possiamo riconoscere in quel popolo la nostra storia di credenti, i nostri percorsi a volte spediti a volte lenti e faticosi. Grazie a quell’evento l’antica cena consumata in occasione della separazione del clan diviene la “Cena Pasquale”, il memoriale della liberazione. Non celebreranno più solo lo scorrere del tempo, ora hanno la gioia di ricordare che Dio in un momento preciso è intervenuto in loro favore, che loro sono il popolo eletto. È il tempo della salvezza…
Chissà per noi cristiani di oggi cosa può voler dire essere salvati. Con la Pasqua appena trascorsa cosa abbiamo celebrato? Quale salvezza abbiamo celebrato? La salvezza dalla mala sorte? La salvezza dal malocchio? O abbiamo scoperto che Dio è vivo ed è in mezzo a noi. Abbiamo aperto gli occhi e ci siamo ritrovati nel giardino ed abbiamo visto il sepolcro aperto e vuoto come hanno visto le donne del vangelo. Siamo anche noi nel cenacolo e vediamo entrare Gesù che ci mostra i segni dei chiodi. Questo è il fatto storico dopo il quale nulla è stato più come prima. Celebriamo la Resurrezione di Cristo, che ha sconfitto la morte. La forza dell’amore di Dio Padre libera dalla morte il Figlio, anzi sconfigge la morte con l’offerta del Figlio. Gli evangelisti hanno scritto i loro vangeli non per narrare fatti miracolosi; il loro scopo era di far conoscere il Dio che ha sconfitto la morte con la passione, morte e resurrezione di Cristo. I racconti della vita di Gesù, i miracoli, le parole, gli insegnamenti, sono tutte catechesi in preparazione all’evento fondamentale: la sua morte e resurrezione. Se ci fermassimo ai miracoli sarebbe come stare ancora in un tempo chiuso in se stesso. Di miracolo in miracolo, in un eterno ritorno che mai si apre alla vera vita. Anche Dio sarebbe tra quelli che alimentano un sistema assistenzialistico che non porta alla maturità umana. Le opere di misericordia, che siano benedette, i miracoli, non sarebbero in grado di darci la vita eterna se non fossero un riflesso dell’offerta che Gesù Cristo ha fatto di se stesso. Non sono le nostre opere che ci salvano, ma accogliere Cristo può davvero cambiare la nostra vita.
di Fra Francesco Serra
Foto di Federica Bini
Raffaele Rastelli – La Provincia/ Fotolive
[1] R. Cantalamessa, La Pasqua della nostra salvezza, Ed. Marietti, 1971 pag. 18