Pubblichiamo una nuova lettera aperta scritta da un nostro parrocchiano sulla Visita Pastorale del Vescovo a Casalmaggiore e nelle nostre comunità parrocchiali a fine febbraio 2021.
Prendo spunto da quanto scritto da Silvio dopo la Visita Pastorale. Lo ringrazio anzitutto per il suo scritto. Anche io penso che la visita del Vescovo sia stata per la nostra comunità un momento di grazia e di vera esperienza ecclesiale, chiamati dal nostro pastore a confrontarci sinceramente ed in profondità sul nostro essere discepoli sia personalmente sia come comunità.
Nella lettera di Silvio, fra i tanti spunti, mi colpisce particolarmente il tema della paura: la pandemia non è che l’ultima fonte di ansia che si aggiunge alle tante altre che negli ultimi anni sembrano oscurare il futuro della vita della intera specie umana e perciò di ognuno di noi. Le guerre sempre più vicine, i fenomeni climatici sempre più estremi, le disuguaglianze sociali sempre più marcate con i conseguenti fenomeni migratori di massa sono oggetto ormai quotidiano nei telegiornali, sulla stampa, nel web e chiudono il nostro cuore che non vede nel futuro nessuna speranza ma solo paura. Oramai quotidianamente non possiamo non chiederci: che futuro avranno i nostri figli? Avranno un lavoro dignitoso? Un futuro sereno e di pace? Una famiglia? Loro stessi sempre più esplicitamente ci accusano di aver costruito un mondo senza futuro e pertanto invivibile anche nel presente. Questa è la condizione che stiamo vivendo, aggravata dalle preoccupazioni di questa pandemia che ha colpito o può colpire le persone care o noi stessi. È perciò sempre più vero che siamo come i discepoli in mezzo alla tempesta, ci sentiamo disperati e perduti, tanto da pensare di essere pazzi e di vedere un fantasma che cammina sulle acque.
Come scrive Silvio, occorre partire da qui, da quello che sentiamo. Il nostro cuore, se abbiamo la voglia e il coraggio di esplorarlo a fondo, è pieno di paura, confuso, diviso e perciò tanto più anelante alla pace ad una situazione di integrità e verità che desideriamo e sentiamo come la nostra vera identità. Purtroppo il nostro cuore prigioniero della paura fa disastri, lo vediamo nelle relazioni personali segnate dalle divisioni e dalle diffidenze, come anche nei rapporti sociali ai vari livelli e non da ultimo nella relazione con il creato da cui ci sentiamo divisi, trattandolo pertanto come un oggetto da usare e buttare, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. È necessario perciò chiederci: uscire da questa gabbia è possibile? Non è forse questo l’esodo che ci viene chiesto ogni giorno per passare dalla schiavitù alla libertà dei figli? Non è questa l’esperienza che la Chiesa propone agli uomini da duemila anni e che oggi ci sembra così difficile da vivere e comunicare? Se è così, allora con sincerità dobbiamo dirci che un certo modo “tradizionale” di vivere la fede in cui si “prendevano” i sacramenti, si andava a messa la domenica per consuetudine e il catechismo era una serie di nozioni imparate a memoria, una religiosità cioè esteriore, non è più possibile e fortunatamente non interessa più a nessuno.
Papa Giovanni Paolo II, già nel secolo scorso, ha iniziato a parlare di nuova evangelizzazione; ma questa non deve forse iniziare da noi che già ci diciamo cristiani? Un nuovo e sempre più profondo incontro personale con la Parola di Dio come auspicato dal Concilio? In questo senso sentiamo forte l’esigenza di percorsi di fede da adulti e per adulti che, mettendo in gioco la libertà di ognuno, possano essere dei percorsi di trasformazione interiore, di incontro intimo e personale con il Signore della vita; sennò come riuscire a «ballare in mezzo alla tempesta»? Gli incontri del gruppo famiglia andavano in questa direzione. Così come la serata dedicata alla Parola, momento prezioso, il più importante, secondo il Vescovo. L’incontro con la Parola rappresenta a mio parere una perla nella nostra parrocchia. Nell’ascolto della Parola diventiamo comunità offrendo ai fratelli, compagni di viaggio, l’intimità della propria preghiera. Ognuno di noi si mette a nudo e nello stesso tempo coglie nelle esperienze degli altri una parola rivolta a sé. Con creatività e umiltà occorre perseverare su queste strade, piccoli “laboratori della fede” in cui portare avanti reali processi di trasformazione interiore, cioè di conversione. Occorre ricominciare ad ascoltare e parlare con le persone del loro e del nostro benessere in senso integrale: corpo, mente e spirito. La salvezza non può essere solo la predicazione di una speranza nell’aldilà, ma deve farsi vicina alle donne e agli uomini nella loro situazione reale per riuscire a proporre processi e percorsi di liberazione e guarigione. La tradizione della Chiesa ci mostra questa attenzione lungo i secoli, fedele all’insegnamento del maestro che manda i suoi discepoli a predicare, a guarire e a liberare dallo spirito del nemico. Per questo, sapendoci peccatori, ma perdonati, senza presunzioni, ma con umiltà, occorre crescere nell’esperienza di fede, in un rapporto sempre più personale e intimo con il Signore, ma anche in una sempre maggiore conoscenza di noi stessi, delle nostre dinamiche interiori che cosi profondamente ci condizionano. Nessuna fuga nell’intimismo, ma solo così credo potremo essere un aiuto vero e strumenti di guarigione e salvezza per le persone che incontriamo.
Come è possibile sennò costruire la parrocchia come «famiglia di famiglie», come ripetutamente ci ha chiesto il nostro Vescovo? Partendo da noi è utile interrogarci sullo stato delle nostre relazioni, quanta paura, diffidenza, sofferenza, provocata o subìta. La realtà non va negata o nascosta, ma sappiamo che siamo figli e fratelli di Colui che dona la sua Grazia in abbondanza ed è disceso negli inferi per liberare i peccatori; per questo i nostri limiti non sono l’ultima parola, ma il luogo dove imparare a conoscerci, ad accettarci, ad amarci. Non è forse questa la dinamica virtuosa della famiglia, l’amore sponsale; non è forse questa continua crescita di accettazione reciproca, che ci libera dalle false attese e dalle paure? Credo che ripensare la parrocchia come famiglia di famiglie implichi una profonda messa in discussione della organizzazione e della “vita” delle nostre parrocchie, cosi come oggi si configura. Usando un parallelismo, forse un po’ azzardato, si può dire che come un certo modo di concepire e vivere la famiglia fondata sull’autorità e sulla divisione rigida dei ruoli è stato superato in una tensione a una relazione libera e liberante mai del tutto compiuta, così anche la parrocchia va ripensata in un’ottica relazionale: di piena e pari dignità fra tutti i suoi membri, di corresponsabilità pur nella diversità dei carismi e delle responsabilità. Nel mio cuore ci sono molte domande, poche risposte, ma qualche certezza: il nostro peccato e la nostra debolezza sono il luogo dove il Signore si manifesta, per questo non temiamo, anche se ogni giorno, come Pietro, sentendo la forza della tempesta, sprofondiamo nelle acque e gridiamo «Signore salvami!».
di Giampaolo Buiatti