Per non dimenticare il Console Italiano Luca Attanasio, il carabiniere che lo accompagnava, l’autista e tante altre persone sacrificate sull’altare del dio denaro, pubblichiamo il seguente articolo di Sara Pisani, testimone della realtà del Kivu.
Era il 2008. In quel periodo da alcuni mesi la situazione nella Repubblica Democratica del Congo era, per così dire, stabile. Per questo mi è stato possibile partire. La ragione del viaggio, diceva qualcuno, è semplicemente viaggiare. Ma nel mio caso si sommavano desideri altri. Alcuni riconoscibili nell’amicizia con un giovane congolese in procinto di fare la professione perpetua per la grande famiglia dei Saveriani. Oggi, Padiri Kalez’ho, è coordinatore delle missioni saveriane nel continente africano. Altri motivi erano riconducibili alla mia innata curiosità di incontrare un pezzo di mondo di cui avevo letto e studiato soprattutto per la sua vicinanza al Rwanda, che nel 1994 aveva prodotto il più grande genocidio della storia africana.
Confini di guerra
Così, il 6 luglio 2008 sono partita da Milano con un volo che faceva un unico scalo ad Addis Abeba per rifornimento. Il volo notturno, e nel tempo di un sonno mi sono ritrovata in un altro continente. Aeroporto di Bujumbura, Burundi, perché qui si atterra se si va nel Congo est. La capitale, Kinshasa, è lontana. Quindi, Burundi. Altro confine di guerra africana, altra guerra dimenticata. La zona sempre la stessa. Regione dei Grandi Laghi, minerali clandestinamente esportati nel sud est asiatico per essere rivenduti in Uganda, che diventa miracolosamente la maggiore venditrice ai paesi occidentali di coltan, stagno, tungsteno. Nessuna miniera, nemmeno di oro, nessuna risorsa nel sottosuolo, eppure noi acquistiamo dall’Uganda senza farci domande. Di questa storia avevo parlato tante volte nelle scuole dove con l’associazione LAPO avevo fatto incontri interculturali. Ma vedere sarebbe stato diverso.
Kivu: le Colline D’Africa del coltan
La mia destinazione era proprio il Kivu, scenario della guerra che da decenni insanguinava il Paese e che in quell’estate del 2008 aveva visto una breve tregua. Il conflitto sarebbe ripartito nell’ottobre di quello stesso anno. Kivu, chi è costui? Colline d’Africa dove esistono i giacimenti di coltan, acronimo di columbo-tantallite, indispensabile per far girare veloci i nostri telefoni, 15-20 milligrammi per apparecchio, ma tanto basta. I grandi produttori non sono filantropi e neppure benefattori; comprano le materie prime (coltan, oro, zinco, uranio, tungsteno, cobalto ed altri) dove costano meno, e non importa se il meno provoca disastri e conflitti. Business is business. Miniere illegali, trasporti illegali, compratori senza licenza; e, soprattutto, eserciti di mercenari a guardia delle illegalità. Per il profitto tutto è lecito, Cina al vertice della piramide; nelle sue miniere di uranio in Niger si scava anche a mani nude. Ma questa è un’altra storia.
La stagione dei martiri africani
Nel luglio di quel lontano 2008, in Congo, ho visitato tutto ciò che serve vedere per capire. La capitale del Kivu, Bukavu, dove presso la sede vescovile e la casa dei padri saveriani si incontreranno, tredici anni più tardi, Luca Attanasio e i suoi referenti per l’est del Paese. Bukavu crocevia di universitari, intellettuali, volontari, NGO, diplomatici. In quella sala d’aspetto puoi leggere Nigrizia come Internazionale, Missione Oggi come Cem Mondialità. Mentre aspetti che qualcuno ti spieghi perché sul mercato nero si vendono creme sbiancanti e le donne ammirano i capelli lisci di una giovane occidentale. Ma non sempre nei luoghi del potere si trovano le risposte vere. Quelle le incontri sulla via polverosa, al crocicchio delle strade, diceva un tale. A me alcune risposte le diede in parte suor Rosina, Piccole Figlie di Parma, a Uvira da un decennio e responsabile della casa che mi ha accolto. Qui, tra una preghiera e una visita al dispensario dove le neomamme sedevano in attesa di una risposta («Mio figlio sopravviverà? Dall’Italia vi hanno mandato soldi per comprare il latte?»), lei e le sue consorelle mi hanno raccontato di come in tempo di guerra accogliessero tutti i feriti, compresi i guerriglieri Mao-Mao o quelli del Fronte di Liberazione Rwandese. Ma non tutti gradirono questa loro disponibilità e qualche mese dopo il mio rientro, al riavvio del conflitto, suor Rosina, suor Véronique, suor Sifa, vennero sequestrate per alcune ore, minacciate, ferite. Era la stagione dei martiri africani, religiosi e religiose occidentali, italiani e locali, che venivano uccisi in nome di un conflitto di cui noi faticavamo a pronunciare il nome.
Tutto poteva succedere
Altre risposte mi vennero da padre Elia quando, al confine con il Burundi, sulle sponde del Lago Tanganica, in viaggio verso Goma, mi condusse in visita alle fosse comuni. Luoghi di oblio, oltre che di morte. Oblio occidentale, che se non vede immagini raccapriccianti non crede all’orrore provocato. Oblio che si fa scandalo quando ci si accorge che le numerose truppe della MONUSCO giacciono nella capitale della regione, troppo impegnate a sfruttare le giovani donne locali o a bere birra a 10 dollari. Il salario medio mensile di un congolese, per chi il lavoro ce l’ha. Ma non solo questo si è inciso nella memoria. Anche i numerosi campi profughi UNHCR, quello a Uvira e quello a Goma, al confine il primo con il Burundi e il secondo con il Rwanda. E poi la casa dei padri saveriani a Mboko, occupata durante la guerra dai militari congolesi passati all’esercito Rwandese, ancora contenente alle pareti dei graffiti rappresentanti le violenze, gli stupri, le torture a cui la popolazione civile, soprattutto le donne, è stata sottoposta. Parole e immagini indelebili. E ancora, in viaggio verso Fizi, luogo di altri massacri, visitare le rovine della casa dei padri saveriani, distrutta dall’esercito pochi mesi prima, è stato paralizzante. Solo ora, riesumando i ricordi dalla memoria più profonda con l’uccisione dell’ambasciatore Attanasio, capisco anche il perché di quello strano rosario recitato dalle suore sulla macchina che ci conduceva a Goma, attraverso le colline sul confine rwandese. Solo ora capisco cosa chiedevamo in quella preghiera. Tutto poteva succedere.
Testimone
I ricordi sarebbero ancora molti, dalla cattedrale costruita nel quartiere di Mont Saint a Bujumbura in occasione della visita di Giovanni Paolo II nel 1990, alle scuole aperte grazie alle offerte italiane, alle Messe di 4 o 5 ore presso il quartiere dei pigmei, alle cisterne che raccolgono l’acqua piovana con cui si beve, ci si lava, si fabbrica sapone. Per non parlare della mia guida spericolata tra i bambini di strada sulla lava del vulcano Nyiragongo eruttato nel 2002, o della visita al Centre Jeunes Kamenge a Bujumbura, quartiere distrutto dalla guerra del Burundi mai abbandonato dai padri saveriani di Parma. Oltre ai luoghi sono i nomi a non lasciarmi e gli sguardi di Pascal e Filston, figli adottivi per un giorno. Con loro e per loro si impara a vivere pienamente quel che ci è dato oggi. E con loro e per loro si scrive questa testimonianza, che può, se il lettore vuole, diventare memoria collettiva.
di Sara Pisani
(fotografie dell’autrice, immagine dell’ambasciatore di don Claudio Rubagotti)