È da poco passato il settecentesimo anniversario della morte di Dante Alighieri (nella notte tra 13 e 14 settembre 1321), così come sono ricominciate le scuole e l’università. L’autore della Divina Commedia viene ancora letto e studiato a distanza di secoli: ma oggi cosa può dire alle nuove generazioni e cosa può dirci del nostro mondo? Pubblichiamo la personale riflessione di una docente di italiano, scaturita da una risposta di una studentessa lo scorso anno scolastico e dalla lettura della Candor lucis aeternae di Papa Francesco. Così, non va dimenticato il Dante uomo del suo tempo, ma anche poeta in grado di esprimere temi universali e desideri profondi.
Una piccola (o grande?) soddisfazione quest’anno scolastico che si è appena concluso – tra percentuali di alunni in presenza e a distanza, tra impraticabili programmazioni di tempistiche e impossibilità di trascurare le necessarie valutazioni – me l’ha data. E si è verificata, più o meno, a metà febbraio quando – al termine dell’intero percorso sull’Inferno dantesco – mi sono presa il tempo (un paio d’ore) per “chiacchierarne” con i ragazzi e raccogliere le loro impressioni. La domanda di rito è la più semplice e la più complessa: «Ti è piaciuto o no quello che abbiamo letto? Cosa ti ha lasciato? Cosa ti ha interessato o ti ha annoiato?». Perché la sfida più grande è quella relativa alla Bellezza: non sono più abituati, i nostri ragazzi, a ragionare sulla Bellezza. Ragionano sull’utile, sul vantaggioso, sul produttivo. Ma sul “bello”… no. No, perché è inutile.
Così, tra pareri più o meno attendibili e motivati, è arrivata la risposta di un’alunna – una delle migliori della classe, è vero –, ma non italiana e di religione islamica. «Prof… quando mesi fa aveva introdotto il percorso sulla Commedia ci aveva suggerito di appuntarci un paio di provocazioni, in modo da poterle poi confrontare e verificare al termine del programma. Io l’avevo fatto… leggo? Allora… “Non possiamo togliere Dante dal contesto religioso medievale al quale appartiene: sarebbe come togliere il comunismo a Stalin o a Mao. Ma non possiamo fermarci a leggere Dante solo in prospettiva teologica. Sarebbe riduttivo e selettivo: vorrebbe dire che chi non è cattolico non può comprenderlo e nemmeno apprezzarlo. Nella Commedia c’è molto di più: è la dimensione antropologica che noi dobbiamo recuperare. Qui dentro c’è una chiave universale per comprendere l’uomo e il suo cammino esistenziale”. Quindi io volevo dire che, per me, è stato vero. Io non sono cattolica ma mi sono ritrovata in tanti aspetti di cui Dante parla e credo che possa essere davvero interessante per tutti, anche quelli che non credono».
Già. Per questo da tempo mi rimbalza in testa una domanda scottante: ma se Dante fosse (stato) ateo? La sua opera perderebbe valore? Cioè: se la dinamica teologica passasse in secondo piano, non varrebbe più la pena di spendere mesi e mesi – per tre anni consecutivi! – tra parafrasi (perché… sì, c’è ancora qualcuno che mi chiede dove poter trovare una Divina Commedia in italiano), analisi e commento di centinaia e centinaia di versi? Soprattutto tenendo conto che il divario tra Dante e i ragazzi che lo accostano aumenta a velocità esponenziale e che loro, di cattolicesimo e teologia, non ne sanno proprio niente? Perché investire tutte queste energie – da entrambe le parti per carità… – se poi l’ambito dell’interpretazione si deve ridurre ad una cerchia ristretta di cattolici praticanti o, forse, a qualche altro uomo o donna di buona volontà che prova ad entrare nella mente e nel cuore e nell’anelito del Sommo Poeta?
Ed è qui che entra in campo la Candor lucis aeternae, la lettera apostolica di papa Francesco, scritta in occasione del VII centenario della morte di Dante Alighieri e data, dal Vaticano, il 25 marzo 2021. Espressione che Dante stesso utilizzò nel suo Convivio (al cap. XV) citando la definizione di Sapienza divina all’interno dell’Antico Testamento. Espressione che, per osmosi, a noi piace riferire anche alla Commedia stessa, vero e proprio splendore dell’eterna luce. Poche pagine, nove paragrafi in tutto, che ripercorrono i tratti salienti della storia e della ricaduta dell’opera dantesca sull’ordinarietà dell’esistenza.
Papa Francesco, nella fase iniziale, si preoccupa di riportare alla memoria gli interventi di alcuni suoi predecessori – san Pio X, Leone XIII, Benedetto XV, Paolo VI – che, in occasione delle precedenti ricorrenze, avevano espresso elogi e riflessioni sull’autore e sull’opera. Ovviamente facendone un baluardo della cattolicità: «[…] l’Alighieri è nostro. […] Infatti, che potrà negare che il nostro Dante abbia alimentato e rafforzato la fiamma dell’ingegno e la virtù poetica traendo ispirazione dalla fede cattolica, a tal segno che cantò in un poema quasi divino i sublimi misteri della religione?».[1] E ancora: «Questo è il suo elogio principale: di essere un poeta cristiano e di aver cantato con accenti quasi divini gli ideali cristiani dei quali contemplava con tutta l’anima la bellezza e lo splendore». Insomma: guai a pensarla diversamente.
Ma la novità di papa Francesco si concretizza a partire dal paragrafo successivo quando definisce la vita di Dante un vero e proprio paradigma della condizione umana: cattolica e non. Ciò che maggiormente colpisce il pontefice è la duplice dimensione di attualità e perennità della dimensione biografica – e, di conseguenza, artistica – del poeta. L’attualità, infatti, ne fa un esule tra i tanti esuli della storia, ingiustamente cacciato dalla «perfida noverca» [2] Firenze, nei confronti della quale egli mantenne però sempre un affetto immutato ed un legame strettissimo, un vero e proprio cordone ombelicale che la condanna poté forse affievolire e trasformare, a tratti, in dolore esasperato ma mai cancellare definitivamente. Come si direbbe in spagnolo: odio es amor hambriento; l’odio è, in fondo e per tutti e più o meno consciamente, fame esasperata d’amore. E Dante, affamato della stima e della riconoscenza della sua città, ne rispetta – pur non condividendola – l’amara decisione di allontanamento sperimentando «sì come sa di sale lo pane altrui, e com’è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale». [3] E la perennità allarga l’esperienza ad ogni uomo di ogni tempo: fino a noi, che possiamo respirare la sua stessa forza d’animo e il suo stesso connaturale istinto di fedeltà.
La visione del papa si focalizza, poi, sulla missione del poeta che – nel doloroso ed entusiasmante ed epifanico percorso nell’aldilà – compie – aiutato da esperte guide che si succedono al suo fianco – un delicato lavoro di cesello su se stesso, antropologicamente parlando, e sulla sua anima. Quando, all’esatta metà del cammino nel Paradiso, incontrando il trisavolo Cacciaguida, Dante prende coscienza di sé e della sua missione, è innegabile che, come cristiano, rilegga la sua esistenza in quel disegno già presente ab aeterno nella mente di Dio. Ma è altrettanto innegabile che, come uomo (e come poeta), avverta l’acuta responsabilità di lasciare un segno nel mondo. Non senza palesare tutta la sua fragilità nel temere che, quanto raccontato, possa impedirgli la fama presso i posteri. Come biasimarlo? Nel suo mestiere di poeta, quello grazie al quale «l’uom s’etterna» [4] e, da buon conoscitore dei classici latini, sa perfettamente che i versi sono un monumento più duraturo del bronzo [5] ma che necessitano, anche, di un pubblico che legga, interpreti, tramandi. Rimanere, non morire: ecco – da sempre – l’aspirazione dell’umanità. Per questo Dante può, a buon diritto, essere definito cantore del desiderio umano: «L’itinerario di Dante, particolarmente quello illustrato nella Divina Commedia, è davvero il cammino del desiderio, del bisogno profondo e interiore di cambiare la propria vita per poter raggiungere la felicità e così mostrarne la strada a chi si trova, come lui, in una selva oscura e ha smarrito la diritta via», scrive il pontefice.
Un desiderio che, come anticipa l’etimologia della parola, spinge a guardare in alto, alle stelle e anche oltre. Quel bisogno struggente – che si fa quasi obbligo morale – racchiuso nell’essere umano di cercare qualcosa che dia senso pieno alla sua esistenza, ne sazi la fame e ne offra una degna chiave di lettura. È qui che la Commedia deve, inevitabilmente, staccarsi da una lettura esclusivamente “di parte” e mettersi “dalla parte” dell’uomo inteso nella sua nudità creaturale. Perché se è vero che
lo maggior don che Dio per sua larghezza
fesse creando, e a la sua bontate
più conformato, e quel ch’e’ più apprezza,
fu de la volontà la libertate, [6]
è altrettanto vero che questa realtà accomuna gli esseri umani, indipendentemente dalla provenienza, dalla cultura e dal credo religioso, e ne costituisce il tratto distintivo rispetto alle altre creature. Il libero arbitrio, chiave di comprensione della Commedia tutta, è anche la chiave di comprensione dell’uomo in quanto tale. È ciò che costituisce la sua grandezza, rendendolo capace di scelte – cosa che gli altri animali non sono in grado di fare – ma è anche ciò che segna la su più profonda fragilità, ponendo nelle sue mani la possibilità di compiere scelte anche contrarie alla morale o all’istinto di sopravvivenza.
È qui, allora, che la Commedia ha tanto da dire anche all’umanità di oggi, siano essi giovani o adulti. Il percorso di Dante, che nella sua lettera apostolica papa Francesco richiama come emblematico perché segnato dalla misericordia e dalla presenza di figure significative (soprattutto le tre donne benedette: Maria, santa Lucia, Beatrice), è quanto di più attuale possa presentarsi alla società del nostro tempo, così ondivaga e scarsamente rassicurante. La strada del poeta offre l’esempio di un uomo che, inserito in un contesto altrettanto ondivago e scarsamente rassicurante, non si abbandona all’ironia di una sorte amara e nemica ma cerca in sé e nelle situazioni apparentemente negative un punto di forza, un punto fermo, una leva che possa consentirgli di sollevare il mondo sanguinante nel quale si trova. Dante non cerca un’altra vita, un’altra strada, un’altra condizione esistenziale ma – con la lucidità che lo contraddistingue – in quella vita, in quella strada, in quella condizione esistenziale cerca (e trova) punti di luce nascosti. E li amplifica fino a che non vengono a costituire un nuovo orizzonte.
Così – ascoltando ancora la voce di papa Francesco – possiamo affermare che «nell’itinerario della Commedia, […], il cammino della libertà e del desiderio non porta con sé, come forse si potrebbe immaginare, una riduzione dell’umano nella sua concretezza, non aliena la persona da sé stessa, non annulla o tralascia ciò che ne ha costituito l’esistenza storica». E in quella triplice e progressiva visio Dei, raccontata in Paradiso XXXIII, c’è tutta la pienezza di un obiettivo raggiunto che lascia però aperta la possibilità di un orizzonte ancora da scoprire e da esplorare. Come ogni uomo che, prendendo progressivamente consapevolezza di sé, si fa amico il proprio limite, il proprio confine e, accettandolo, lo supera. Per questo Dante – paradossalmente – avrebbe potuto anche essere ateo. O agnostico. O almeno “non” cattolico. Perché – recuperando le risorse della sua umanità – si fa compagno di strada di tutti gli esseri umani, di tutti i luoghi e di tutti i tempi e con loro, e per loro, diviene guida rassicurante: se ce l’ha fatta lui, perché non dovremmo farcela noi? Persone come lui e, grazie a lui, rese un po’ più umane.
In conclusione, si potrebbero riprendere le sagge parole di Tommaseo: «Leggere Dante è un dovere; rileggerlo un bisogno; gustarlo un gran segno di genio; comprendere con la mente l’immensità di quell’anima è un infallibile presagio di straordinaria grandezza». Ma si potrebbe lasciare spazio anche a Italo Calvino che, concludendo le sue Città invisibili, mette sulla bocca di Marco Polo queste parole che hanno il sapore di una profezia, proprio come quelle della Commedia dantesca: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». [7]
“Cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”: così per Dante, così per ogni uomo che con lui e per lui si mette in cammino.
Note:
[1]. Ep. Nobis ad Catholicam (28 ottobre 1914): AAS 6 (1914), 5402, Paradiso XVII
[2]. Paradiso XVII
[3]. Ibidem.
[4]. Inferno XV
[5]. Orazio, Odi, III, 306 Paradiso V
[6]. Paradiso V
[7]. Calvino I., Le città invisibili, Einaudi, 1972
di Ilaria Mazzoli
laica consacrata – Piccola Comunità Apostolica, Parma – docente di Lettere